domenica 16 marzo 2014

Genere e specie.

Sentii le sue braccia che mi fasciavano, la sua testa che si piegava su di me, di colpo divenni fragile e vuoto. Mi voltai a cercare i suoi occhi. Mi strinse una mano sulla bocca. Mi spinse la nuca contro il muro, mi graffiò. Scese a baciarmi. Sentii il suo peso, il suo odore. Riconobbi la pelle e la saliva e tutto. Tutto. Conoscevo fin troppo bene quel sacrificio. Conoscevo la solitudine e il dolore dopo, e tristemente pensai a quel dopo. Lui aveva reso quella strada così cupa, coatta… io ero pronto ad accettarla molto tempo fa. Provò a saltarmi addosso, gli diedi una spinta. Era eccitato, felice…
-Come vuoi, come vuoi tu…
Si tolse i pantaloni, si chinò davanti a me carponi come quando giocava ad asina per strada… mi sorrise con la sua faccia migliore, la più dolce e sottomessa.
-Vieni… ti prego…
Lo vidi perdere i freni, il suo muso torcersi, il suo naso respirare ogni oscenità, il suo intero corpo lacerarsi, soffrire miseramente e rinascere avido. Lo trascinai come un insetto su un altro insetto sussurrando parole d’amore e di stupro. Non chiusi mai gli occhi. Per la prima volta guardai tutto, ogni singola goccia del suo sudore, ogni sussulto della sua schiena. Non vidi nessuna bellezza. Di nuovo pensai a lui vestito da chierichetto, con quella tonaca bianca che toccava terra e raccoglieva il sudicio delle scale, quando saliva appresso al prete per benedire le case… Sentii la forza di quella vittima che mi dominava. Non lottavo più contro me stesso né contro di lui. Non avevo più paura di perderlo, perché lo avevo già perso. Lui non era lì, era nel suo nucleo duro, roccioso, che sempre sarebbe rimasto oscuro. Avrei voluto offrirgli un cura profonda, la profondità non era quella che credevamo di trovare nelle nostre membra. Non riconoscevo l’odore del suo cuore… non vedevo altro che ali di ombra. Una parte di me rimase lucida, rifiutò il dolore che poi sarebbe venuto. Ero un uomo provato dalla vita, non ero più un pollastro. Ma ero un uomo libero, se avessi voluto avere una vita scabrosa avrei potuto averla. Ma non volevo. Lo amavo, lo avrei amato fino in fondo ai miei giorni. Ma non lo conoscevo, mi era ignoto. Sentii il mio sesso diventare inutile, morto.

-Scusa, non ce la faccio.
Mi staccai da lui, violentemente mi rimisi in piedi, è l’ultima volta, pensai, è una coda. Non avevo nessuna intenzione di ricominciare. Mi sentivo guarito e non sapevo da cosa. Rimasi così, assorto, incredulo. Non di quello che era passato nel mio corpo. Ma di quello che era accaduto nella mia anima. Sapevo che sarebbe scappato, che in fretta si sarebbe rinfilato i suoi stracci e sarebbe ritornato a fare il padre di famiglia. Attesi la sua faccia ricomposta, il suo brutale saluto. Non m’importava. Lo avrei lasciato andare con una sola preghiera, di non farsi vedere mai più. Mi tirai su i pantaloni, mi chiusi in bagno e attesi che se ne andasse. Guardai in basso il cortile… e sentii la stessa solitudine, la stessa voglia di cadere.
Tornai di là per riprendermi i vestiti. Lo trovai esattamente dove l’avevo lasciato, di spalle, nudo, anche lui guardava il cortile.
-Cosa fai lì?
Scosse le spalle, buttò la cenere della sigaretta in basso, sorrise.
-Sei diventato impotente.
-Forse.
-Colpa mia?
-Forse.
-È tutto forse, oggi, Guido… tutto forse…
Si stese sul pavimento. Rimase lì a pancia in aria, avvolto dal buio, come un suntuoso animale morto.
-Non te ne vai?
-Vuoi che vada?

Sollevò le braccia, accavallò le dita delle mani, fece due animaletti. Un gioco d’ombre che si rifletteva sul soffitto nel cerchio di quell’unico abat-jour ancora acceso. Tirò fuori due voci, una infantile, una greve. Cominciò a parlare e a rispondersi con quelle dita. Ciao, come stai? Sono molto stanco. E perché? Perché la vita e una schifezza. Cosa ti è successo? Sono stato maltrattato. Ma non hai qualcuno che ti ama? Non lo so se mi ama. Chiediglielo.
Strisciò in terra, mi prese le gambe…
-Vieni qui, Guido…
Mi chinai accanto a lui. Piangeva, tirava su col naso. Un pianto rotto, straziato, che sembrava sollevarsi dallo stesso abisso dove lo avevo visto gioire poco prima…
-Mi ami?
Allungai una mano verso il soffitto e feci il mio animaletto con le dita, mossi la mia ombra zoppicante.
-Non so chi sei.
-Sono Costantino.
-Chi è Costantino?
-Sono io.
-Genere e specie.
-Uomo. Traumatizzato.
-Genere e specie.
-Uomo. Omosessuale.
-È questo il trauma?
-Sì.
-Non è un trauma, sono io. Sono Guido.
Unimmo le dita. I nostri animaletti si raggiunsero, le ombre si bacarono, le dita si strinsero. Ci rivestimmo. Attraversammo il cortile.
Il Tevere era ancora lì. Tutto era intatto come capita al cento di certe estati, di certe giornate al centro della vita. Quando la gioia e il dolore, lo slancio e il disgusto, ogni nostra metà sembra in perfetto equilibrio sul filo dell’orizzonte.

dal libro "Splendore" di Margaret Mazzantini.
foto "Brennan ( Clear Poncho)" di Ryan McGinley.

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